May 23, 2004 - «Obbedivamo agli ordini» dicono i soldati; «Non sapevamo» giurano politici e generali. Chi dice la verità? L'invocare ordini superiori è una difesa standard nei processi a militari per genocidio o crimini di guerra, benché già nei processi di Norimberga e di Tokyo a carico di gerarchi nazisti e ufficiali giapponesi le Corti avessero respinto questa linea difensiva. Nel caso delle torture in Iraq, i media americani hanno pubblicato le istruzioni di ignorare la Convenzione di Ginevra partiti dal Pentagono e dalla Casa Bianca, ma stanno curiosamente omettendo un dettaglio che rende irrilevante la ricerca di specifici documenti: la «necessità», discussa pubblicamente, di usare la tortura a Guantanamo, in Afghanistan e in Iraq. Dopo l'11 settembre 2001 se ne è parlato su giornali, talk show televisivi, mensili prestigiosi. La minaccia del terrorismo, sostenevano i fautori dell'uso della violenza contro i prigionieri, giustificava qualsiasi mezzo nella ricerca di informazioni. Un esempio? Il mensile Atlantic Monthly. Nato nell'800, livello editoriale altissimo, vende centinaia di migliaia di copie, relativamente progressista, non è un tabloid di provincia. Nell'ottobre 2003, pubblicava un servizio di copertina intitolato «The Dark Art of Interrogation» in cui tutte le tecniche di coercizione (per usare un eufemismo) erano tranquillamente discusse. Si parlava proprio di ciò che abbiamo visto nelle foto delle ultime settimane: detenuti incappucciati, privazione del sonno, maltrattamenti, costrizione a stare in piedi, umiliazioni. Queste tecniche sono discusse come strumenti legittimi e moralmente accettabili. Il servizio, nell'edizione italiana pubblicata da Internazionale del 31 ottobre 2003, mostra anche foto di prigionieri iracheni incappucciati.

L'autore dell'articolo, Mark Bowden, prende le distanze dalle torture intese come «pollici schiacciati, scalpelli, marchi a fuoco, strumenti per impalare, scosse elettriche» ma afferma che «ci sono anche dei metodi che, secondo alcuni, non sono vere torture». E' un catalogo della tortura democratica, «riformista», quello che Bowden propone dopo aver intervistato esponenti di alto livello della Cia, della polizia di New York, dei servizi segreti israeliani: «Privazione del sonno, esposizione al caldo e al freddo, uso di droghe per indurre confusione, maltrattamenti, costrizione a stare in piedi per giorni o seduti in posizioni scomode, far leva sulle paure del prigioniero per se stesso e la sua famiglia. Anche se strazianti per la vittima - continua Bowden - queste tecniche generalmente non lasciano segni permanenti». I 25 morti accertati in Iraq e quelli di cui non sappiamo nulla in Afghanistan sarebbero contenti di scoprire che «generalmente» ciò che hanno subito «non produce danni fisici duraturi». Riferendosi agli investigatori americani che avevano arrestato un membro di al-Qaeda, Atlantic Monthly conclude: «Nessuno di loro sarà mai processato per aver tenuto sveglio, bagnato e scomodo Khalid Sheik Mohammed. Né dovrebbe esserlo». Se questa era l'opinione dei liberal di Boston, perché mai il ragazzotto della Pennsylvania che voleva fare il meccanico avrebbe dovuto rifiutarsi di fotografare gli «animali» nudi e incappucciati nelle celle di Abu Ghraib? Tenere un prigioniero al guinzaglio, come ha fatto la soldatessa Lynndie England, generalmente non lascia segni permanenti.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/23-Maggio-2004
/art17.html