Il mastino della guerra è di nuovo in forma, sta cercando di accattivarsi il favore dei giornalisti ringhiando dagli schermi televisivi. Thomas Friedman ha detto: "Prima ero un critico contestatore di Rumsfeld, ma c'è una cosa… che apprezzo in lui:è solo un pò pazzo ok? C'è una vena di follia in lui e in questo tipo di guerra in cui contano sempre di farci impazzire, sono contento di avere sulla nostra panchina un quarterback così - che è un pò folle, non completamente, ma non si sa mai quello che farà..."
Il mastino della guerra è di nuovo in forma. Donald Rumsfeld ha ritrovato piena visibilità – dopo un paio di mesi nella cuccia dei media che seguivano le rivelazioni sulle torture nella prigione di Abu Ghraib – e ora, cerca apertamente di accattivarsi il favore della massa di giornalisti con il suo stile inimitabile di spaccone, mentre si scatena e ringhia sugli schermi televisivi.
Per tre anni, sugli schermi, la celebrità di Rumsfeld è stata legata alla paura e all'assassinio. Il responsabile civile del Pentagono, fino all' 11 settembre, non faceva grande impressione sulla nazione – ma subito dopo, la CNN lo acclamava come "una virtuale rock star." Mentre ragguagliava i corrispondenti sui bombardamenti in Afghanistan nell'autunno del 2001, reporter ed esperti si sono precipitati a dar rilievo alla sua abilità, al suo nuovo status di pezzo grosso, mentre esaminava la carneficina della guerra aerea .
Tre decenni dopo che il presidente Richard Nixon utilizzò una strategia "folle" nel tentativo di intimidire i leader nord vietnamiti, più di qualche esperto liberale si associava a quanti plaudivano Rumsfeld come uno in grado di bloccare il contatore della violenza. Nel corso di una trasmissione della CNBC (13 ottobre 2001), Thomas Friedman disse: "Prima ero un critico contestatore di Rumsfeld, ma c'è una cosa… che apprezzo in Rumsfeld. Lui è solo un pò pazzo ok? C'è una vena di follia in lui e in questo tipo di guerra contano sempre di riuscire a farci impazzire e sono contento di avere sulla nostra panchina come quarterback un tipo così - che è un pò folle, non completamente, ma non si sa mai quello che farà e vi dico: questo è il mio uomo".
E l'uomo di Rumsfeld era Ahmad Chalabi. Appoggiato implacabilmente dal capo e dai vertici del Pentagono, lo scaltro esule iracheno era decisamente ritenuto un bugiardo provetto. Questo però non ha rappresentato un ostacolo per la reporter del New York Times Judith Miller e per un team di suoi colleghi quando, prima della guerra, furono pubblicati in prima pagina racconti sulle armi di distruzione di massa possedute dagli iracheni, con Chalabi nel ruolo di fonte anonima principale.
Il Times non era solo. Molti reporter, pagati dei principali quotidani, accolsero il cenno di Rumsfeld, piegandosi con entusiasmo all'imbroglio di Chalabi. Alcuni presunti giornalisti indipendenti fecero lo stesso. Christopher Hitchens, per esempio, finì con il dedicare il suo libro sull'invasione dell'Iraq a Chalabi e a pochi altri – definendoli: "Compagni in una giusta lotta e amici per la vita".
Quando Rumsfeld diventa oggetto di dure critiche da parte dei media, accusa il colpo e continua a ticchettare… come una bomba a orologeria. Dall'inizio del 2001, l'opinionista del New York Times Maureen Dowd si è spesso - e con crescente frequenza (l'anno scorso in più di 40 colonne) - riferita a lui chiamandolo "Rummy" (abbreviazione da Rumsfeld ma anche strano, strambo, ndr), anche qualche altro esperto ha usato a volte toni sarcastici. Eppure la narrazione mediatica prevalente è in accordo con l'agenda di Rumsfeld del "New American Century": i ragazzi saranno ragazzi, Rumsfeld continuerà a essere "rummy", la guerra sanguinaria e la macchina dei media del Pentagono continuerà a girare mentre il segretario della difesa fa da guida.
Rumsfeld è tornato in azione il 17 agosto, con una lunga intervista su "NewsHour" condotta da Jim Lehrer sulla PBS. Per la maggior parte del tempo, Rumsfeld ha tessuto la sottile tela delle pubbliche relazioni. Durante la serata, ha analizzato come ottenere "le informazioni migliori" e "buone analisi di tutte le fonti" senza "avere un unico punto di vista".
Qualche minuto dopo, Lehrer ha trovato il modo per chiedere se gli analisti del Pentagono, che hanno studiato la questione irachena, sono riusciti a stabilire "perché i servizi segreti si siano rivelati così in errore a proposito delle armi di distruzione di massa".
Rumsfeld: Oh, no, non l'abbiamo fatto noi. È stata la Central Intelligence Agency
Lehrer: Bene, così non l'avete fatto — non rientrava nei vostri compiti?
Rumsfeld: No. Non c'entriamo
La replica evasiva veniva da quello stesso capo del Pentagono che prima dell'invasione dell'Iraq dichiarò energicamente che il governo statunitense sapeva dove fossero collocate le armi di distruzioni di massa irachene.
Ma – senza aggiungere nemmeno una parola in più – Lehrer cambiò argomento, spostandosi su questioni di strategie. "Cosa dice riguardo all'intensità della ribellione dopo lo scontro più intenso, si è trattato di un errore dell'Intelligence all'interno del Pentagono — o no? "
Facile e prevedibile la risposta di Rumsfeld ("le cose sono sempre diverse da quanto si prevede… un piano di guerra non sempre continua a sussistere dopo il primo contatto con il nemico…"). In un'intervista che comprende migliaia di parole e si concentra in gran parte sull'Intelligence, Lehrer tira in ballo continuamente la domanda fatidica che subito Rumsfeld lascia cadere.
I principali canali d'informazione statunitensi, quando sono tanto delicati nel fare autocritica, sono difficilmente inclini a ribellarsi al primato di menzogne dette prima della guerra da Rumsfeld. Quanto passa per esame di coscienza nel New York Times e nel Washington Post è più simile all'autoerotismo che non all'auto-flagellazione. Nessuna meraviglia che Rumsfeld, la stella mediatica, sia tornata alla ribalta.
Norman Solomon è autore, insieme a Reese Erlich, di "Bersaglio Iraq: le verità che i media nascondono".
Fonte: http://www.counterpunch.com/solomon08202004.html
Traduzione di Monica Ciurluini per Nuovi Mondi Media
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