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Anatomia di una guerra


... "Gli iracheni dicono che a causa degli americani hanno ottenuto libertà in cambio di insicurezza" spiega. "E che in qualsiasi momento restituirebbero la libertà per riavere la sicurezza, anche se ciò potrebbe significare avere un governo dittatoriale". Poi raggiunge il culmine, certa di provocare giorni e giorni di dibattiti sullo stile dello show televisivo americano "Crossfire", se mai riuscisse a ottenere la visibilità che merita, aggiungendo: "Ho sentito un iracheno colto dire che se a Saddam Hussein fosse concesso di candidarsi alle elezioni otterrebbe la maggioranza dei voti"...


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Anatomia di una guerra

Greg Guma, Nuovi Mondi Media

A fine settembre, Farnaz Fassihi giornalista del Wall Stret Journal ha scritto ad alcuni amici un e-mail su ciò che stava vedendo in Iraq ( http://www.uruknet.info/?colonna=m&p=6144 ). La lettera ha fatto il giro del mondo, pubblicata però solo dai giornali più coraggiosi. Ma cosa ha scritto Fassihi per provocare una reazione del genere? "Gli iracheni dicono che a causa degli americani hanno ottenuto libertà in cambio di insicurezza" spiega. "E che in qualsiasi momento restituirebbero la libertà per riavere la sicurezza, anche se ciò potrebbe significare avere un governo dittatoriale".


29 ottobre 2004 - Mentre in America l'amministrazione Bush fa fatica a vincere la battaglia della "percezione popolare" riguardo la situazione in Iraq, diventa sempre più difficile mettere a tacere o ignorare ciò che accade in quei luoghi. Uno dei motivi principali è Internet, dove le informazioni non ancora diffuse da molti mezzi di comunicazione possono circolare su scala globale e influenzare l'opinione pubblica.

A volte tali "rivelazioni" sono soltanto voci infondate. Ma se la fonte di queste terribili analisi è una corrispondente del Wall Street Journal che lavora in Iraq, a questo punto la posta in gioco aumenta.

A fine settembre, Farnaz Fassihi giornalista del Wall Stret Journal ha scritto un e-mail ( http://www.uruknet.info/?colonna=m&p=6144 )ad alcuni amici negli Stati Uniti su ciò che stava vedendo. "Essere un corrispondente degli esteri a Baghdad in questi giorni è come essere agli arresti domiciliari", inizia, continuando poi a descrivere il numero di insurrezioni in tutto il paese e quello che ne pensano gli iracheni. "Si potrebbe sostenere che l'Iraq è già perso ed è senza speranze di salvezza. Per quelli tra noi a contatto con la realtà irachena è difficile immaginare qualcosa che possa salvare il paese da questa spirale di violenza".

La lettera si è velocemente fatta strada tra decine di caselle elettroniche, incluso alcune case editrici e il New York Times: Uno dei destinatari, il vice direttore della pagina editoriale, Andrew Rosenthal, figlio del leggendario ex direttore A.M. Rosenthal, era nella lista insieme ad almeno altre 40 persone. Impressionato, ha inoltrato la lettera alla moglie, avvisandola di quanto essa fosse "incredibilmente potente" e " terribilmente e profondamente triste".

In meno di una settimana, è diventata, usando un'espressione di Fassihi "una catena di Sant'Antonio mondiale."

Sia Rosenthal che Fassihi hanno confermato l'autenticità della lettera. Una volta al mese, la giornalista scrive privatamente ad un gruppo di amici "sulle mie impressioni in Iraq, le mie opinioni personali e la mia vita in questo posto, ed evidentemente la lettera è stata inoltrata in giro in maniera assolutamente inaspettata." Rosenthal ha anche affermato di essere sorpreso dell'interesse suscitato dalla lettera.

Ma cosa ha scritto Fassihi per provocare una tale reazione?

"Evito di andare a casa di altre persone e non cammino mai per strada" spiega. "Non posso più andare al supermercato a fare la spesa, non posso andare a mangiare al ristorante, non posso iniziare una conversazione con sconosciuti, non posso andare in giro alla ricerca di storie, non posso utilizzare nessuna macchina che non sia perfettamente blindata, non posso andare sui luoghi da cui provengono le notizie più importanti, non posso restare bloccata nel traffico, non posso parlare inglese all'esterno, non posso viaggiare per strada, non posso dire di essere americana, non posso attardarmi ai checkpoint, non posso essere curiosa di ciò che le persone dicono, fanno, provano."

Scrive che in 4 giorni a Baghdad sono morte 110 persone e ne sono state ferite più di 300. I numeri sono così scioccanti, spiega, che il Ministro della Salute ha deciso di non divulgarli più. I ribelli attaccano le forze americane e i lavoratori 87 volte al giorno, afferma, e quando si attraversa Sadr City si possono vedere giovani "piazzare apertamente per terra congegni esplosivi improvvisati."
Durante una riunione d'emergenza dei corrispondenti stranieri riguardante l'attuale ondata di rapimenti, gli è stato detto che il loro destino "sarebbe soprattutto dipeso dal punto in cui ci si sarebbe trovati nella catena dei rapimenti."

"Funziona così" continua Fassihi, "bande criminali ti prendono e ti vendono ai Baathisti a Fallujah, che a loro volta ti vendono ad Al-Qaeda. In cambio, armi e denaro fanno il percorso inverso, da Al-Qaida ai Baathisti ed in seguito ai criminali."

I commenti sui riscatti sono interessanti e significativi. La stampa italiana e quella del Kuwait hanno recentemente riferito che, per il rilascio delle due volontarie italiane, è stato pagato un riscatto che potrebbe anche ammontare ad un miliardo di dollari. Il ministro degli esteri italiano ha negato che ciò fosse avvenuto, anche perché un'azione di questo genere sarebbe in conflitto con il pubblico rifiuto del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a "negoziare con i terroristi." Ma ha evitato di dare una risposta diretta quando gli è stata posta la domanda, riferendosi invece a delle "scelte difficili."

Fassihi, nel suo racconto, fa capire che quello italiano non è un caso isolato. Altri paesi potrebbero aver scambiato ostaggi con soldi, denaro che in seguito è stato utilizzato per comprare le armi che servono a portare avanti la rivolta. Negli anni ottanta una politica di queste genere si sarebbe chiamata "arms for hostages" (armi in cambio di ostaggi).

Il governo americano è determinato a"ostacolare la distribuzione" di documenti in gradi di mostrare quanto la situazione sia peggiorata. Un primo passo annunciato dall'Agenzia americana per lo Sviluppo Internazionale (Agency of International Development) è quello di "limitare la distribuzione" di un report fornito dalla società appaltatrice Kroll Security International che mostra l'aumento drammatico del numero di attacchi negli ultimi mesi.

Un'altra tattica è quella di mandare in Iraq alcuni americani in grado di portare quelle che il ministero della difesa chiama "le buone notizie". Fassihi, un'iraniana di 32 anni, cittadina americana che ha lavorato per il New York Times, il Providence Journal e il Star-Ledger di Newark, chiaramente non rientra in questa categoria.

Riguardo alle elezioni, per esempio, dice che metà del paese rimane una "no-go zone", fuori dal controllo delle forze americane e irachene e fuori dalla portata dei giornalisti. "Nell'altra metà, la popolazione disillusa è troppo spaventata per presentarsi ai seggi elettorali. I Sunniti hanno già detto che boicotteranno le elezioni, lasciando campo aperto a un governo di soli curdi e sciiti che non sarà ritenuto legittimo e quasi certamente porterà alla guerra civile".

Le sue osservazioni sono in aperto contrasto con l'insistenza del Presidente Bush sui costanti progressi che si stanno ottenendo, ma anche con quanto affermato dal candidato democratico John Kerry sulla possibilità di vincere la guerra con una strategia nuova e una coalizione più ampia. Nonostante Rosenthal abbia ribadito l'importanza della lettera di Fassihi dicendo che "merita di essere letta", il Times e altri giornali hanno deciso di ignorarla. Questa mancata diffusione può aiutarci a comprendere la costante discrepanza tra quello che viene percepito dalla gente e quello che sa sulla guerra chi la vive da vicino.

Fassihi, come tutti coloro che mettono in dubbio i presupposti fondamentali di questo intervento, potrebbe peccare di eccessiva ingenuità. "Gli iracheni dicono che a causa degli americani hanno ottenuto libertà in cambio di insicurezza" spiega. "E che in qualsiasi momento restituirebbero la libertà per riavere la sicurezza, anche se ciò potrebbe significare avere un governo dittatoriale".
Poi raggiunge il culmine, certa di provocare giorni e giorni di dibattiti sullo stile dello show televisivo americano "Crossfire", se mai riuscisse a ottenere la visibilità che merita, aggiungendo: "Ho sentito un iracheno colto dire che se a Saddam Hussein fosse concesso di candidarsi alle elezioni otterrebbe la maggioranza dei voti."

Greg Guma dirige il Vermont Guardian, un settimanale distribuito su scala nazionale, e Toward Freedom. È autore di "Uneasy Empire" e del thriller storico "Spirits of Desire". Può essere contattato a Greg@vermontguardian.com

Fonte: http://www.countercurrents.org/iraq-guma191004.htm
Traduzione di Simona Schimmenti per Nuovi Mondi Media


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